Franco Quadri su nostre ombre quotidiane

Esiste presumibilmente un problema del padre per Lars Norén. Ma se era inevitabile vedere in lui, dopo Bergman, un altro erede di Strindberg – riconosciutosi in vita con compiacimento e macerazione negli attributi del "figlio della serva" – lo scrittore, a quel tempo apprezzato soprattutto come poeta, un padre putativo se lo va a trovare, attraversando l’oceano, in Eugene O’Neill. E’ un viaggio di ritorno perché – dalla tragedia greca al naturalismo nordico – è nota l’ispirazione europea dell’autore americano, che proprio in Svezia avrebbe otenuto, unico tra i drammaturghi del suo paese, il riconoscimento più ambito per un letterato; e che, dimenticato in vecchiaia soprattutto dai suoi connazionali, da Stoccolma sarebbe ripartito post mortem con una nuova celebratissima carriera siglata da quattro inediti in sette anni.

La prima mondiale di Lunga giornata verso la notte al Dramaten fu un avvenimento anche per Norén, che se non ha succhiato la passione per la scena da quel testo, certo ne ha tratto suggestioni.

In Nostre ombre quotidiane (1991), letteralmente "E dateci le ombre", dal titolo di un testo distrutto dello scrittore americano, gli O’Neill scendono direttamente in campo: lo schema che l’autore stesso aveva forgiato per il suo quadro di famiglia viene spostatodall’autobiografia giovanile alla biografia senile, con il vecchio Eugene trasferito da ruolo di figlio cadetto a quello di padre, in un contenitore ambientale molto simile.

Anzi l’imponente spettacolo di Bjorn Melander al Dramaten ricostruiva l’interno scenografico a due piani attenendosi meticolosamente alle didascalie della Lunga giornata , con la giustificazione della continuità della nuova villa sulla costiera del New England rispetto a quella "storica" di trentasette anni prima. Di quella casa nella nuova pièce si parla spesso, non solo come si fa nei riguardi dei luoghi nefasti nell’antica tragedia; quella dimora divenuta simbolica, oltre che di ricordi, è meta di visite mancate. Allo stesso modo si cita il dramma archetipale, di cui circola in casa l’originale ancora inedito; e il fatto che nel corso della rappresentazione venga fatto leggere dall’autore al figlio è causa del più terrificante tra i numerosi sgradevoli scontri tra lui e facciamo conoscenza con la moglie, gelosamente esclusiva, alla quale era stato dedicato.

Nel 1949, in quest’altra villa isolata in riva al mare, nelle tenebre di un inverno prematuro, so duplica per "l’Eschilo d’America" prossimo alla fine il destino di una maledizione a quattro. Siamo, come si è detto, nell’anno in cui il capolavoro segreto è stato impacchettato per i posteri. Nel giorno del suo sessantunesimo compleanno, incontriamo lo scrittore impotente anche creativamente perché scosso dal morbo di Parkinson, anche se da qualche tempo ha rinunciato a bere, e facciamo conoscenza con la moglie, logorata da vent’anni di dedizione e frustrazione, sentinella prepotente e vendicativa della solitudine che l’imprigiona. I due figli in visita, che come la coppia ospite in Chi ha paura di Virgina Woolf?, scatenano la battaglia di parole, sono altri due rottami: uno alcolizzato come l’omologo zio (e il nonno) nel suo precedente lavoro, l’altro posseduto dall’eroina come la nonna dalla morfina. Dell’altra figlia Oona, maritata Chaplin, da quando ha sposato un coetaneo del padre, è proibito far menzione se non furtivamente, sottovoce.

I due coniugi vampiri si nutrono di un reciproco odio vitale e lo riversano sulla generazione successiva, risucchiata nel gorgo, stroncata dall’egoismo di un superuomo senza umanità, a dispetto delle coccodrillesche cadute nella tenerezza, e dalla meschinità avida, rapace, autoritaria della matrigna.

Le parole tremende pesano più degli scontri fisici liberatori tra i due vecchi, delle suppellettili tirate come proiettili, mentre ciascuno cerca di concretizzare la sua discesa agl’inferi: il padre distrugge nel fuoco del camino vent’anni di manoscritti, la madre annuncia un irrealizzabile addioe si cimenta pure in un approccio con il cameriere orientale; Eugene Jr., ubriaco fradicio, grida la propria nullità e si predice un appuntamento con la morte prima dei vicini quarant’anni, Shane si buca a vista in una gamba, perpetuando un abitudine contratta durante il servizio militare in marina, dove Edmund nel testo prototipo aveva covato la tisi.

"E’ strano come tutto si ripeta" dice uno di loro, fungendo da portavoce dell’autore perfettamente cosciente che l’eccesso, l’autocitazione smodata, l’iterazione martellante costituiscono la masochistica ricetta alla O’Neill per questo tipo di saga memoriale, da sospendere tra realismo e ritualità come nella messinscena di Stoccolma. La fine coincide con quella della Lunga giornata, col protagonista di oggi immerso nella memoria del giovanotto di allora, sotto l’incubo dei passi della madre che si droga di sopra, già preparato ad accoglierne delirando la discesa vaneggiante dalle scale.

 

Post Fazione di Franco Quadri al libro di Lars Norén "Tre Quartetti" che comprende le traduzioni di Annuska Palme Sanavio di 3 lavori teatrali pubblicati nel 1995 dalla Ubulibri.

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