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"Il Tartufo" di Molière - La vicenda -

Commedia politica per eccellenza, e forse per elezione, proibita due volte, Tartufo dovette aspettare cinque anni (dal 1664 al 1669) prima di arrivare ufficialmente alla ribalta. Tutta Parigi però la conosceva, troppo se n'era parlato e scritto; erano state fatte inoltre diverse letture, o addirittura rappresentazioni, in privato, le cosiddette "visites".

La sera del 5 febbraio 1669 la sala del Palais-Royal era rigurgitante: gli spettatori furono stipati in ogni angolo possibile; l'incasso superò ogni primato e fu di 2.860 franchi. L'opera fu replicata 44 volte consecutive. Terminava nel trionfo una lunga guerra che aveva diviso Parigi in due opposte fazioni, e la vittoria di Tartufo non era che la vittoria di Luigi XIV contro i suoi nemici interni, la società clericale che faceva capo alla Compagnia del Santo Sacramento dell'Altare.

Il silenzio della "cabala"
Segna una svolta la morte, nel gennaio del 1666, della regina madre Anna d'Austria, che della Compagnia del Santo Sacramento era la dichiarata protettrice. Anna ebbe sempre grande influenza sul figlio, che non poteva non vederla come la Regina che aveva retto la Francia coi Mazzarino durante la sua minore età. E' significativo che Luigi aspetti solo ora a legittimare la figlia avuta con la signora de La Vallière, e che la Compagnia del Santo Sacramento, una volta scomparsa Anna, non si riunisca più in assemblee ufficiali.
Ora Luigi non ha più condizionamenti di nessun genere. Con la Compagnia era in disaccordo, come già il Mazarino. La Compagnia non era una congregazione religiosa ma un gruppo di potere che operava coi metodo delle società segrete ("cabala"), esercitando una rigorosa vigilanza sul costume e decise influenze politiche. La vita libera e le idee del sovrano non erano fatte per ottenere il favore della Compagnia; il teatro e la visione del mondo di Molière del pari.
Proteggere Moliere, per Luigi, era un modo per combattere la Compagnia; e osteggiare Molière, per la Compagnia, era un modo per combattere Luigi. Molière venne a trovarsi in mezzo a due fuochi. La sua vittoria non è quella della libertà, ma quella del sovrano. Nelle Memorie del padre Réné Rapin, un gesuita autore di poesie latine (la citazione è di Georges Couton), si dice addirittura che Molière scrisse Tartufo per sollecitazione del re, che avrebbe volentieri visto i "devoti" messi alla berlina. Si può considerare questa testimonianza con tutte le cautele, ma ci si può chiedere altresì come mai Molière reciti per la prima volta Tartufo proprio davanti al re, in una rappresentazione privata, a feste di Versailles ormai concluse, senza preavviso, e soprattutto in una versione probabilmente incompleta. Voleva forse chiedere a Sua Maestà se la commedia era di suo gradimento e sei poteva "andare avanti"?

Il primo "Tartufo"
Il testo presentato al re era comunque in tre atti e la critica sta ancora discutendo se si trattasse dei primi tre atti dell'opera definitiva, che è in cinque, o invece di una primitiva ma completa edizione in tre atti. Georges Couton crede alla prima ipotesi, citando la testimonianza di La Grange, l'attore della compagnia molieriana che tenendo un "registro" degli spettacoli consegnò alla posterità una miniera di preziose notizie. La Grande (che in Tartufo sosteneva la parte di Valerio) dice esattamente che a Versailles furono rappresentati "tre atti del Tartufo, che erano i primi tre". Non c'è ragione di non credergli, dice Couton. Per altri studiosi, invece, il primo Tartufo era costituito dal primo, terzo e quarto atto del Tartufo attuale. E mistero comunque rimane.

Il nome
Chi è Tartufo? Intanto il nome. "Truffe", tartufo, nell'antico francese indicava, alla lettera, il tubero apprezzato in gastronomia e, metaforicamente, persona disonesta. A un certo punto, derivato dall'italiano (influenza dei comici italiani dell'Arte?) compare la voce "tartuffe", che ha ,gli stessi significati di "truffe" ma che viene usata soprattutto in senso figurato.
In un testo del 1609 (Mastigophore) si legge: "Tu n'est qu'un tartuffe, un butore ... " (Sei soltanto un tartufo, un tanghero...). Molière non ha dunque inventato nulla: ha semplicemente preso il termine dal lessico popolare o dei comici, usandolo in una metafora che non esprime tanto l'ipocrisia quanto la rozzezza e la volgarità.

Tartufo come personaggio
Chi è invece Tartufo come personaggio? Definirlo significa definire anche Orgone e dare un'interpretazione critica dell'opera. Se l'ipocrisia è la discordanza fra l'essere e la volontà di sembrare, ci sono diversi modi di essere ipocriti. Lo si può essere, intanto, per temperamento, così come si è iracondi o accidiosi, coraggiosi o vigliacchi, Tartufo non è di questi, non è l'untuoso collotorto che ostenta la sua devozione perché "è fatto così" e non può fame a meno. Tartufo non è ipocrita come Arpagone è avaro.
Tartufo è semplicemente un arrivista, che usa l'ipocrisia come strumento per raggiungere determinati scopi. In altre situazioni, userebbe altri mezzi; trovasse un libertino da subornare, si metterebbe a fare il ruffiano.
Bigotto, dice La Bruyère, è colui che sotto un re ateo, sarebbe ateo. Ma Tartufo è figlio di povera gente, è un "tartuffe", e non ha molta scelta. Ha osservato che fare il direttore di coscienze nelle case della buona borghesia è un eccellente impiego per un giovane senza arte né parte, e "sceglie" l'ipocrisia. E di quelli che, dice la Lettre sur la comédie de l'Imposteur, "avendo pochi mezzi e molta ambizione, senza alcuno dei doni necessari per soddisfarla onestamente, risoluto tuttavia a saziarla a qualunque prezzo, scelgono la via dell'ipocrisia". Tartufo, dunque, non è propriamente un ipocrita, o lo è due volte: perché simula la devozione e perché simula l'ipocrisia. Egli non è sincero nemmeno in quanto ipocrita e l'ipocrisia non è la sua natura ma la sua maschera.

Orgone
Tartufo investe dunque la propria ambizione, nel "settore" della falsa devozione e tende la sua rete: in essa cade Orgone, ricco signore che insegue un suo ideale di perfezione morale e intende affermare in famiglia, contro quella che egli giudica la corruzione dei tempi nuovi, l'assoluta castigatezza dei costumi. Per un uomo che ha, per così dire, il vizio della virtù, poter trovare una guida spirituale, un sant'uomo che lo consigli e sul quale poter contare ad occhi chiusi, èuna vera benedizione.Orgone è l'humus nel quale può allignare la pianta di Tartufo: del tutto complementare a Tartufo, è inseparabile da questi. Come Tartufo, anche Orgone non è una "maschera", non ha niente a che fare con il babbeo delle farse, non è lo Sganareflo di turno. 2 un personaggio complesso, e, la sua monomania, la fiducia che concede a Tartufo e che può sembrare, idiota, è invece l'ancora a cui tenta di aggrapparsi un uomo che si sente superato dai tempi nuovi, dal figli che rivendicano la loro libertà, dalla moglie che non lo ama. La solitudine di Orgone è la ragione dell'investimento di affetti che egli fa in Tartufo. Fulcro della commedia non sono né Tartufo né Orgone ma l'uno e l'altro insieme. "Nascono i Tartufi", scrive Giovanni Macchia, "se la società è disposta ad accogliergli: anzi è la società stessa che è sotto accusa, per Molière, e non soltanto uno scellerato fin troppo scoperto". Questa è la prospettiva in cui Molière vede Tartufo. Ricorda Louis Jouvet, grande interprete di Moliére e regista di acuta penetrazione critica, che la parte di Tartufo, nella compagnia di Molière, era affidata a Du Croissy, che era il primo attor giovane. "La gente chiama Tartufo un ipocrita, un uomo che si frega le mani con unzione, un sacrestano, un baciapile... Che fare contro una simile tradizone?... Il giorno in cui si tornerà a fare Tartufo bisognerà trovare un giovane affascinante, inquietante, molto intelligente. Si deve sentire dall'inizio che è un individuo pericoloso; ma non si deve nutrire dell'odio per lui. Invece, in tutte le rappresentazioni, fin dall'inizio lo si copre di odio. No. Egli è affascinante, inquietante". Lo stesso svolgersi della vicenda mette chiaramente a fuoco il personaggio nella dimensione del lestofante che "recita una parte". Tartufo è immediatamente riconosciuto come un furfante dagli altri personaggi (tranne ovviamente Orgone e Pemella). Nei primi due atti non si fa altro che parlare di lui in questi termini e gli spettatori lo conoscono prima ancora di vederlo. Molière non deve soltanto preparare la folgorante apparizione del personaggio nel terzo atto; sembra soprattutto preoccupato che sul suo conto non vi siano equivoci. £ veramente un curioso modo, per un autore appena avveduto, quello di rappresentare un ipocrita svelandone in anticipo l'identità. Molière conosceva troppo bene le leggi psicologiche del teatro per commettere un errore così elementare, se non avesse avuto, per commetterlo, le sue brave ragioni. Poi, una volta entrato in scena, Tartufo recita la sua parte da cattivo attore. La sua fondamentale incapacità di simulazione è certamente strana per un ipocrita; si direbbe che egli non ne abbia la vocazione. "Dove va a finire la sua ipocrisia", si chiede Silvio D'Amico, "se egli non può ingannare nessuno?... E difficile immaginare un essere più grossolano di questo. I suoi appetiti, d'una golosità puerilmente schifosa, gli si leggono in faccia. Li manifesta, evidentissimi, subito, nelle prime parole. 0 allora, l'ipocrisia?". In verità, viene il sospetto che Tartufo non abbia nemmeno la fede, ossia il presupposto "necessario" per essere ipocriti. Tartufo, dunque, è senz'altro un "falso" devoto. Fin troppo, vien da pensare, quasi che il suo creatore ne abbia esagerato i tratti per evitare un'accusa fin troppo prevedibile. Se c'è qualcosa di indiscutibile in Tartufo è la circospezione con cui Molière si muove in un campo che conosce come minato, e lo sforzo che fa (basta leggere le prime due "suppliche" che invia al re) per "salvare l'anima" al suo personaggio e a se stesso. Precauzione inutile. All'opera rimane attaccato un inconfondibile alone di irreligiosità. Per Silvio D'Amico l'intenzione di Molière era di dare battaglia non "ai "falsi" devoti ma ai devoti semplicemente", e lo stesso Tartufo come personaggio gli appare un devoto vero, anzi "Tartufo non è, si badi bene un devoto; è il devoto per eccellenza". Altri critici hanno una visione meno oltranzista, e tuttavia, indipendentemente dal giudizio estetico (che per D'Amico è comunque negativo), esiste una generale concordanza sulla visione del mondo che Molière manifesta in tutto il suo teatro, di cui Tartufo è l'evidente epifenomeno. Qual è la morale di Molière?, si chiede Gustave Lanson. E risponde: "E' umana, e ciò vuol dire innanzitutto che non è cristiana". Tartufo, in particolare, "ne laisse aucun doute". E non ha alcuna importanza che Molière voglia distinguere la vera devozione dalla falsa. "Non dubito della sua sincerità", dice Lanson, ma le distinzioni di Molière sono fatte "da filosofo, da incredulo". Molière è "vicinissimo a Voltaire, che sembra quasi di sentire in certi versi di Tartufo". Secondo Brunetière, l'audacia di Molière non consiste tanto nell'attaccare la religione, cosa che avevano fatto molti altri, ma nel portare sulla scena, come problema, un argomento che dovrebbe dibattersi soltanto nel profondo delle coscienze. 2 di questo che in effetti Molière viene accusato dal padre Bourdaloue nel suo sermone sull'ipocrisia: di parlare di cose che non sono di sua competenza. Era il momento in cui i gesuiti tentavano di dare al lassismo una giustificazione teoretica e invitavano gli increduli ad osservare ugualmente ' in attesa della grazia, le pratiche esteriori della religione. Lo stesso Pascal, sia pure a grandi altezze, si permetteva di considerare Dio probabilisticamente, indicando l'opzione della fede, nella straordinaria "Scommessa" metafisica che l'uomo ingaggia, come la più "conveniente". In ogni caso, con Tartufo, Molière invade il territorio della religione. Falsa o vera, sempre di devozione si tratta, e l'una e l'altra hanno uguali e indistinguibili manifestazioni. Se la distinzione è solo nelle coscienze, Molière non sfugge' all'accusa di prender di mira gli uomini di fede: "I giansenisti sono presi di mira come i gesuiti", dice Brunetière, "l'attacco alla religione è indubbio, esse do la religione concepita come "principio repressivo"". Oggi Tartufo è visto in prospettive meno radicali. Giovanni Macchia rileva che la concezione religiosa di cui Tartufo è portatore è quella del quietismo, che proprio allora stava nascendo (Malaval scrive la sua Pratique facile pour élever l'ame a la contemplation nel 1664) e che si sviluppò successivamente portando le Maximes des saints di Fénélon alla condanna e Michele de MoIinos in carcere. Questa, afferma Fausta Garavini, "è la sola interpretazione, ci sembra, che permetta di rendere più precisa ragione di quelle inquietanti frasi di Orgone sulla propria raggiunta beatitudine, nel distacco degli effetti terreni... Tartufo è in questo senso un terapeuta". Ed ecco che il rapporto con Orgone assume più logico senso. Ma, dice anche la Garavini, cessiamo di "interrogarci sul probabili e improbabili obiettivi della satira". Molière, in definitiva, "era un formidabile teatrante che aveva individuato nell'esagerazione di un costume e nella manierata affettazione d'una cultura d'accatto una prodigiosa fonte di comicità. In realtà, più che sui difetti degli uomini, il principe dei commedianti lavora instancabilmente sui loro eccessi". Comunque la si consideri, Tartufo rimane una grande commedia. Certo, è di quelle in cui, per la realtà poco risibile dei personaggi e per l'altezza degli obiettivi, si ride poco. Racconta Stendhal che in una rappresentazione del 1822 il pubblico rise due sole volte: la prima quando Orgone parla alla figlia del matrimonio con Tartufo e scopre Dorina che ascolta; la seconda, nella scena del litigio fra Valerio e Marianna, alla riflessione maliziosa che fa Dorina sull'amore. Tartufo è sicuramente l'opera in cui i caratteristici "eccessi" di Molière sono al massimo grado, Il poeta usa contro il suo personaggio una sferza all'acido solforico, come raramente prima e dopo. L'atrabile di Alceste questa volta è tutta in lui: nel Misantropo la riflette, nel Tartufo la usa. E sul versante della sua rappresentabilità, ha l'audacia di costruire una scena che a distanza di tre secoli rimane "osée": è la scena quinta del quarto atto, quando Elmira, per dimostrare all'incredulo marito che Tartufo ha mire sessuali su di lei, nasconde Orgone sotto il tavolo e finge di accettare le più audaci proposte di Tartufo. Passa i consueti limiti anche la rappresentazione dell'uomo vittima dei propri miti. In Tartufo gli sconfitti sono due: Orgone, vittima di Tartufo, e Tartufo, vittima di Elmira. E' un "jeu de massacre", in cui il ruolo di Elmira rischia di nascondersi, come travolto dal gioco principale che coinvolge i due uomini. Ma anche Tartufo ha la sua debolezza "umana": non resiste al fascino di Elmira e questo lo perde. Se la fede di Orgone crolla di fronte alla ribalderia di Tartufo, l'arriviamo di Tartufo crolla di fronte al fascino di Elmira. La natura sa piegare non solo gli ingenui sogni dell'uomo ma anche l'artifizio che si pone come tale. L'unico momento in cui Tartufo è sincero è quando si dichiara ad Elmira: rimane certo ipocrita nel contrabbandare come amore il trasporto del sensi, ma il trasporto dei sensi è autentico e l'inno che egli fa della bellezza, oltre che stupendo poeticamente, gli viene dal cuore. 2 il solo, ma fatale, errore che Tartufo commette. Anche lui non sa essere ipocrita fino in fondo. Tartufo in quel momento perde di vista il proprio interesse e si consegna, indifeso, diventato fanciullo, al carnefice. Non è più, ora, il candore di Amolfo e di Alceste a cedere le armi ma la furfanteria di un manigoldo.

Il finale
Molière sa trasformare in virtù gli stessi errori in cui per opportunità è costretto a cadere. L'esempio più clamoroso è quello dello scioglimento, che è dichiaratamente posticcio, ma non è affatto, come potrebbe sembrare, una semplice e smaccata adulazione del re. Un finale accomodante, dopo tutte le polemiche e gli scandali, era indispensabile. Molière non poteva chiudere la commedia con la vittoria dell'ipocrisia. Ed ecco il colpo di genio. La vicenda viene condotta a un vicolo cieco, così che il trionfo di Tartufo appaia logicamente irreversibile. A questo punto l'autore inventa uno scioglimento assurdo, che non teme di apparire tale, anzi denuncia la propria assurdità per dare alla "favola una morale ironica e pertanto ancora più amara. Alla fine del quarto atto, benché I smascherato, Tartufo ha partita vinta: Orgone gli ha fatto donazione di tutti i suoi beni e Tartufo ha il diritto legale di impossessarcene; non solo, ma essendo stata scoperta la sua complicità con un ribelle fuoriuscito, Orgone dovrebbe addirittura finire in galera. Interviene il messo del re, con la stessa logica con cui entrava il "deus ex machina" nella tragedia greca, e porta invece in prigione Tartufo; il re, gli fa dire Molière, è così lungimirante che, leggendo nel cuori, ha scoperto il colpevole. L'ostentata inverosimighanza dello scioglimento trasforma l'artificio in elemento espressivo. Il finale adulatorio non è che l'estrema burla di Molière ai suo nemici: l'ipocrisia domina il mondo, e se sulla scena il poeta, per carità di patria, la deve mostrare sconfitta, lo si faccia; ma sia chiaro che ciò può accadere soltanto per un intervento miracoloso. Capi l'antifona il re? 2 probabile; ma dovette allora far ricorso a tutta la sua amicizia per accettare coi sorriso un'adulazione che sapeva troppo di presa in giro, e che avrebbe potuto fa nascere sospetti anche in un sovrano meno spiritoso di lui.


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